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Chinatown non è un posto bello

Chinatown a Milano è stato per tantissimi anni il mio quartiere del cuore. Ho iniziato a frequentarlo quando nessuno ci andava, a eccezione degli italiani residenti nella zona. Non esisteva lo street food in Paolo Sarpi e tantomeno lo struscio del weekend. Poi c'è stato il boom e tutto è cambiato, così come anche il mio umore. Mi domandate spesso perché gradualmente parlo sempre meno di Chinatown, sebbene ci abbia dedicato anni nel provare tutte le attività di ristorazione, scrivendo numerosi articoli e post (i più letti online) e organizzando i primi tour nella zona che la città di Milano abbia visto - destando lo stupore degli stessi cinesi del quartiere.


Questo articolo è stato pubblicato il 7 luglio 2023 nella mia newsletter.


Chinatown non è un posto bello.

C'era una volta Chinatown, oggi c'è un parco divertimenti.


Da oltre un anno a questa parte continuo a scrivere su Instagram che Chinatown non è un posto bello, o perlomeno non lo è più. Quando mi domandate il perché io non vi rispondo mai o vi dico frettolosamente che lo reputo un luna park per turisti, una sorta di Camden Town. Ora che ho una newsletter tutta mia, che apprezzate particolarmente, vi spiego meglio.


Chinatown off limits

Quando iniziai a frequentare Chinatown nel lontanissimo inizio millennio ero molto giovane, così come il quartiere era estremamente diverso da come è oggi. Seguitemi in questa descrizione e cercate di calarvi nell’atmosfera del tempo, so che non sarà semplice.

Dunque, lungo Paolo Sarpi e nelle strade limitrofe gli unici negozi presenti erano di bigiotteria, parrucche, accessori tecnologici e articoli per la casa. Io mi ci recavo perché all’epoca ero una cosplayer e quegli oggetti in vendita erano perfetti per i miei costumi. Quando entravi nei negozi ti guardavano male, davi fastidio, nessuno parlava italiano e gli esercenti, pur di metterti nelle condizioni di andartene alla svelta, ti urlavano contro qualcosa di incomprensibile oppure alzavano il volume del drama che stavano guardando nei piccoli televisori.

Passeggiando lungo la strada si contavano numerose prostitute e tipi loschi, di notte si origliavano le macchine da cucire che lavoravano senza sosta e in generale si respirava un’aria decisamente ostile. E i ristoranti, chiederete voi? L’unico che, a memoria, era frequentato da qualche italiano (soprattutto residenti della zona) era Jubin. Per il resto scodatevi i moltissimi altri perché fondamentalmente non c’era niente.

Nessuno andava a Chinatown poiché considerata zona off limits: a ridosso del quartiere Garibaldi (già all’epoca zona di spaccio e prostituzione, altro che Corso Como e la movida delle discoteche…), Paolo Sarpi era un po’ come la banlieue parigina.


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Chinatown di Milano


Rivolte e polizia

Erano anni molto lontani sia dalla Milano da bere, sia dalla Milano di oggi: c’era, a mio avviso, come un senso di caos e squallore. Questa situazione di disagio era tra l’altro estesa a molte zone del capoluogo lombardo.

Nel 2006 divenne sindaco Letizia Moratti che, durante il suo mandato, fece un’importante opera di restyling: con lei Milano iniziò il suo percorso verso il titolo di “città più cool d’Italia” tanto che successivamente, non a caso, fu nominata Commissario delegata per la predisposizione degli interventi necessari alla migliore presentazione della candidatura della città di Milano per Expo 2015.

Come immaginerete questa rivoluzione non avvenne con grandi strette di mano. In modo particolare, la situazione conflagrò nel 2007 quando oltre 300 cinesi si rivoltarono contro la polizia (potete approfondire qui e qui). La risposta del sindaco fu durissima e fu chiaro a tutti che ormai Chinatown non era più da considerarsi parte del territorio italiano ma una zona altra di proprietà degli immigranti. Ogni volta che si accendeva il televisore scorrevano immagini di violenze, sembra assurdo che una zona pedonale oggi così tranquilla e colorata potesse essere stata il palco di tanta efferatezza. Ma questa è storia, esattamente quella di cui oggi nessuno parla un po’ per ignoranza, un po’ perché non serve al fine ultimo del content o del marketing.


Che vi piaccia o no

Con la conferma di Milano a città per Expo 2015 la situazione doveva essere risolta per il bene comune, che piacesse o no.

Nel 2010 Paolo Sarpi fu oggetto di un profondo intervento di riqualificazione urbana e, cinque anni più tardi, in concomitanza dell’Esposizione Universale, la Ravioleria diede il via all’imponente catena di emulazione della proposta di ristoranti e street food della zona per gli italiani. Come per tutte le cose, infatti, i cambiamenti non avvengono dal giorno alla notte ma mediante un processo che parte da lontano e che arriva fino alla normalità del giorno d’oggi.

Ravioleria è stato un caso importante perché, al contrario di tutte le attività della ristorazione cinese per cinesi, veniva incontro agli italiani: una vetrina accogliente, pulita, con indicazioni chiare sulla provenienza degli ingredienti rigorosamente italiani.

Un’operazione di marketing esemplare: prendi un oggetto non popolare in un dato paese o circostanza, in questo caso il raviolo, lo modifichi, lo “ripulisci” per renderlo attraente per una società che si considera migliore di quella che sta ospitando.

Un raviolo, questo, che è un po’ l’emblema dell’intero quartiere: messo a lucido per non spaventare gli avventori (rigorosamente bianchi), gli stessi a cui vendere un cibo proposto come autentico e tradizionale, accuratamente adattato a palati per niente esterofili.


Mangiare cinese è (radical) chic

Nel giro di qualche anno, mangiare alla Ravioleria come atto di estrema apertura al diverso divenne una posa. Del resto Agie, il proprietario, non è un cinese qualsiasi ma un bocconiano che parla perfettamente italiano, simpatico e dai modi affabili e il signor Sirtori, il macellaio da cui la Ravioleria si fornisce, possedeva una delle migliori macellerie storiche della città. Una rivoluzione del genere non poteva che avvenire sotto la stella del buongusto.


Man mano che ci si avvicinava Expo spuntavano i primi blogger di Milano, pronti a far sapere quanto la loro città fosse futuristica, vivibile, cool. Beppe Sala è il sindaco simbolo di questo nuovo corso: strizza l’occhio ai giovani e ai social, incarnando il radical chic di cui Milano è la capitale d’Italia. “Paparazzato” nei bar di maggiore tendenza in città (come Marchesi, acquisita all’80% nel 2014 da Prada, baluardo della borghesia ed intellighenzia milanese), compresa ovviamente la Ravioleria, Sala ha saputo cavalcare il nuovo corso milanese in pieno stile di internazionalizzazione.


Tutto ciò, di per sé, potrebbe non essere del tutto negativo se non per il fatto di snaturare l’identità cinese stessa. Sarebbe da folli pensare che i cinesi abbiano sbagliato a venire incontro agli italiani per allontanare da sé lo stigma del diverso e precludersi delle possibilità commerciali importanti, ma allo stesso tempo è anche vero che queste scelte hanno portato a una resa quasi carnevalesca della propria cultura. Ciò che all’inizio era percepito come poco rassicurante in realtà era autentico e prettamente cinese. Adesso è stato tramutato in appetibile e confortevole per i bianchi. E se all’inizio questi ultimi erano milanesi curiosi delle novità in un regime di sicurezza, adesso sono i turisti della provincia che vengono il weekend oppure (forse il più contraddittorio cortocircuito) i Gen Z che si agghindano in modo eccentrico per mescolarsi tra i giovani cinesi alla moda.


Flexare e sostituire

Io, in tutta onestà, non so fino a che punto i Gen Z amino le altre culture, le tendenze (dove di nuovo, ahimè, non c’è proprio nulla, ma questa è un’altra storia che meriterebbe un’altra puntata) e i quartieri. Sono dell’avviso che molto di quello che fanno oggi sia al fine del content. Lo dico perché non vedo approfondimento, entusiasmo o piacere. Vedo solo il “flex”, ossia l’ostentare, la pura apparenza tramite una supposta appartenenza.


Ma al di là di questo, ciò che mi lascia davvero perplessa è l’opera di sostituzione in atto in quello che un tempo era il mio quartiere preferito e che oggi mi intristisce. La sostituzione di cui parlo, e che ha avuto origine agli albori di Expo con la riqualificazione di Sarpi, riguarda non solo gli esercizi commerciali (che dall’abbigliamento all’ingrosso sono diventati street food per turisti) ma anche gli avventori. Mi spiego meglio: fino a prima del Covid amavo andare in Chinatown per mangiare tradizionale (non nella via principale, come ben sapete) vivendo un’esperienza autentica. Ogni volta che entravo in un ristorante dove un italiano non avrebbe mai messo piede era sempre una gran sorpresa: pensavano che mi fossi persa, sicuramente sbagliata, che quello non era il posto dove in realtà volevo mangiare. Ci si capiva un po’ a caso: io volevo gustare i piatti più particolari e i cinesi restavano sbigottiti quando vedevano il mio piatto vuoto a fine pasto. Ed era bellissimo poi raccontarvi queste vicende singolari, compresa la traumatica esperienza del Covid: quando in Sarpi prima del lockdown era tutto chiuso e non volava una mosca, ho organizzato l’unico Capodanno Cinese d’Italia. Ma subito dopo il Covid la situazione è diventata quella che oggi stiamo vivendo: tantissimi locali tutti uguali (soprattutto raviolerie), supermercati trendy (sulla falsa riga di Mood Market e Chineat), bubble tea instagrammabili e locali “safe” per chi vuole fare un viaggio nell’esotico ma fino a un certo punto, come Caffè Pascucci o la pizzeria Romantica - catene sorte in questo florido quartiere per ovvi motivi di mercato.


Forse è anche un po’ colpa mia, perché avendo dato visibilità al quartiere cinese ho contribuito probabilmente a farlo diventare una Camden Town milanese per gli italiani inizialmente per il weekend, oggi anche in settimana. Devo prendere atto di tutto, fine. Così come devo accettare che in un quartiere un tempo così stimolante è stata attuata una sostituzione sia gastronomica, sia di persone: un tempo solo cinesi, oggi solo italiani. Tutto cambia, tutto si trasforma. Continuerò a raccontarvi di Chinatown attraverso le mie guide, per dovere di cronaca, ma in tutta onestà io preferisco i posti dove le ruspe fisiche e ideologiche non hanno abbattuto l’autenticità: Nolo (di cui la guida qui), Niguarda, Farini, posti limite non ancora battuti, sporchi, a volte pericolosi e degradati, non conformi all’ideale esotico, pulito e protetto dove portare le famiglie, dove indossare bigiotteria Vivienne Westwood (purtroppo diventata mainstream a causa degli stessi individui sui social) senza la paura di essere derubati, dove la plastica è stata sostituita da qualsiasi altro materiale eco-sostenibile e le cucine sono linde. Dove non si sperimenta il ridicolo sogno alla Mangia prega ama. Dove non è ancora avvenuta la sostituzione dell’autentico con il simulacro.


Un racconto antropologico di anni


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